LEGENDA-01-01

Location: Accademia Chigiana
Orario: dalle 17

Prenotazione evento

Introduzione

Tutto il fascino dell’ignoto in un viaggio a ritroso nel tempo, per conoscere, capire ed interpretare la visione del mondo di un uomo del XVI sec.

 

Per saperne di più

Ci furono tempi in cui le terre lontane potevano essere conosciute solo attraverso il racconto dei viaggi di eroi capaci di oltrepassare il confine fra realtà e mito: Ulisse, che sospinto dalle rime di Omero aveva attraversato le acque del Mediterraneo prima di poter riapprodare a Itaca; l’Alessandro raccontato dai poeti islamici, che si era diretto verso Oriente, oltre la Persia, per estendere il suo potere fino ai confini della Terra, dove avrebbe incontrato popoli nuovi e creature fantastiche; San Brandano, che con un gruppo di monaci a bordo di una piccola imbarcazione aveva solcato le onde dell’Oceano Atlantico, fino a trovare il Paradiso su un’isola ai limiti occidentali del mondo.

Nel frattempo c’era chi, invece, aveva tentato di capire cosa ci fosse al di qua del racconto. L’unico modo per scoprirlo era tenere insieme la misura del cielo e quella delle terre da esso coperte, comprese quelle mai viste. Nel III secolo a.C. Eratostene di Cirene aveva catalogato le stelle e seguito le maree per comprendere come le correnti d’acqua fossero legate alla posizione della Luna. Osservando le ombre era riuscito a calcolare la circonferenza terrestre. Usando il reticolo di coordinate sferiche congegnato intorno al 300 a.C. da Dicearco da Messina, Eratostene cominciò a disegnare carte per descrivere la Terra, inaugurando la storia della geografia.

Realizzò una mappa dell’Egitto che mostrava il corso del Nilo fino oltre la Nubia, dove il fiume Bianco e quello Azzurro si uniscono. Ma soprattutto, integrando i resoconti di Pitea sull’esplorazione delle terre atlantiche, disegnò una carta del mondo che con buona approssimazione rappresentava le isole britanniche, comprendeva Etiopia e Arabia, e ponendo al centro il Caspio, si estendeva dall’Europa Occidentale alle foci del Gange.

All’estremo nord appariva Thule, l’isola dove il Sole riposa e gli elementi si confondono. Al sud, sotto l’India, si estendeva un’altra terra misteriosa: Taprobana. Molti secoli dopo, ne “L’isole più famose del mondo” (1590), l’umanista Tommaso Porcacchi da Castiglion Fiorentino la descriveva così:

«La Taprobana è isola del gran mare Indico, posta (come dice Solino) fra ‘l Levante e ‘l Ponente: ma tanto grande et ampia che gli antichi riputarono ch’ella fosse un altro mondo, habitato da gli Antipodi […] et ch’è lontana da terraferma la navigazione di venti giornate: ma che le navi mal vi potevan navigare; si per le vele cattive, come perche non havevano il fondo fatto in taglio: Nondimeno posto che molti et molti auttori antichi et moderni di quest’isola habbiano trattato, io non trovo però alcuno, che le assegni i confini; onde anch’or io dovrò esser scusato, se in questa manco de mio ordine consueto».

 

Gli isolari medioevali compilati da navigatori arabi ed europei avevano aggiunto a Thule e Taprobana molte altre terre conosciute solo dai racconti. Luoghi della mente, queste isole remote furono le terre dove i filosofi rinascimentali ambientarono le loro utopie politiche. Ecco perché ne rimane traccia anche nei primi atlanti moderni disegnati dai cartografi fiamminghi, dove esse appaiono solo un po’ discoste dalle ultime scoperte geografiche.

Il libraio Abraham Ortelius, nato sulle acque del grande porto di Anversa nel 1528, dopo molti viaggi e contatti professionali aveva raccolto una gran collezione di carte. Nel 1570 le fece incidere tutte quante con la stessa scala per pubblicarle insieme in un libro intitolato Theatrum Orbis Terrarum. Per la prima volta tutte le terre del mondo si affacciavano come immagini dalle pagine di un libro, disposte a farsi esplorare da chiunque volesse guardarle, anche senza viaggiare. Ortelius fu il primo a citare le fonti e i nomi dei cartografi all’origine delle notizie geografiche riportate. Inoltre, le successive edizioni del Theatrum avrebbero permesso di confrontare le nuove carte con le rappresentazioni più antiche, le descrizioni e gli elenchi, raccogliendo così la memoria del sapere sul mondo attraverso le epoche. La geografia acquisiva una dimensione storica. Ortelius ottenne per qualche anno il monopolio della pubblicazione di atlanti, impedendo ai suoi concorrenti di stampare altre carte, e consolidando una visione che da allora in poi farà testo per le immagini del mondo, fino al momento in cui si potrà osservare la terra dal cielo.

Ciascuna delle terre lontane descritte dall’atlante fiammingo continuava comunque a scatenare l’immaginazione dei lettori europei. Non solo per le figurine disseminate sulle mappe che descrivevano costumi di popoli stranieri, sovrani giganteschi e animali mai visti. Insieme alle merci provenienti dalle colonie d’oltremare cominciavano anche a diffondersi i resoconti delle conquiste, e con le lettere dei missionari facevano il loro ingresso descrizioni di musiche, strumenti, danze, inventate da civiltà reputate ancora capaci di comprendere i segreti della Natura.

L’anno 1492 segna contemporaneamente l’approdo di Colombo sulle rive di Hispaniola e l’atto finale della Reconquista. L’unione delle corone iberiche e lo spirito della Controriforma non riuscì comunque a rendere omogenea la società multietnica, multilinguistica e multiculturale maturata sotto il dominio musulmano e arricchitasi con il commercio amministrato dagli ebrei sefarditi. La civiltà andalusa cominciò a spostarsi verso le Canarie, avamposto iberico di un territorio che si sarebbe esteso oltre l’Atlantico, da Siviglia alle Filippine. Insieme alle Azzorre e Capo Verde, le Canarie appena conquistate divennero il luogo da cui il Mediterraneo con la sua cultura fatta di fitti incontri fra lingue, credenze, sistemi politici si gettava verso Occidente, e cominciava ad acclimatarsi all’Africa. Su quelle isole il mondo andaluso venne a contatto con gli schiavi strappati ai gruppi tribali che di lì a poco, dopo lo sterminio degli Indios, andranno a ripopolare le isole dei Caraibi. In quel mare chiuso questa nuova comunità costruirà una replica del Mediterraneo e impianterà una cultura genuinamente spagnola, ben più omogenea di quella congerie di diversità trattenute sotto la corona di Castiglia. Per questo ancora oggi, ascoltando la musica latino americana, è possibile riconoscere un’identità che fantasiosamente ci fa estendere fin lì i confini delle sonorità “mediterranee”.

I missionari gesuiti e francescani insegnarono i principi della polifonia agli indios ai neri africani, che a loro volta portavano in eredità gli strumenti, le pratiche e le sonorità delle loro culture d’origine. Se i compositori europei furono subito attratti dalle musiche esotiche, tanto da trattarle alla stregua del materiale folklorico spagnolo o portoghese nei loro vilancico sacri, gli indigeni cominciarono ben presto a scrivere musica “europea” in modo eccellente, tanto da diventare maestri di cappella in molti centri già agli inizi del Seicento. Dal loro discorso musicale, però, ogni tanto faceva capolino qualcosa di originario, come nei casi di eteroglossia tipici delle lingue creole. Inni processionali in quetchua e antifone in nahuatl ricomposte su melodie profane si affiancavano a danze sensuali e musiche di festa. Mentre in Spagna Carlos III e il secolo dei lumi rivoluzionavano lo stile musicale, nelle colonie sopravviveva il gusto barocco per l’improvvisazione: unico collante che permette la convivenza di tradizioni musicali tanto diverse, e la libera esecuzione di musiche meticce.

A partire dalla presentazione delle tavole del Theatrum Orbis Terrarum di Ortelius posseduto dalla biblioteca di Palazzo Chigi Saracini e appena restaurato, proveremo a seguire insieme i diversi modi di trasformare terre sconosciute in immagini e immaginare suoni inauditi. Confronteremo punti di vista e di ascolto, per renderci conto ancora una volta che l’immagine dell’Altro, come dell’Altrove,dipende solo dalla nostra capacità di comprenderlo. L’importante è esserne coscienti.

 

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